Il tuo carrello è attualmente vuoto!
Referendum 8 e 9 Giugno: 5 si per un lavoro più tutelato, dignitoso, stabile e sicuro
Di redazione Karl&Rosa
Il prossimo 8 e 9 giugno si vota per 5 Referendum su lavoro e cittadinanza.
Votiamo 5 sì per fermare le morti sul lavoro, impedire i licenziamenti illegittimi, abolire i contratti precari, riconoscere a 2 milioni e mezzo di persone il diritto di essere cittadini e cittadine italiane.
Ecco i 5 quesiti:
1. Stop ai licenziamenti illegittimi
Votiamo sì: diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo e reintroduciamo il reintegro.
2. Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese
Votiamo sì: in caso di licenziamento infondato saranno i giudici a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
3. Riduzione del lavoro precario
Votiamo sì: rendiamo il lavoro più stabile, ripristiniamo l’obbligo di causali per i contratti a tempo determinato.
4. Più sicurezza sul lavoro
Votiamo sì: abroghiamo le norme che impediscono, in caso di infortunio negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante.
5. Più integrazione con la cittadinanza italiana
Votiamo sì: dimezziamo da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.IL VOTO E’ LA NOSTRA RIVOLTA!
Leonardo De Angelis
Accordo sui minerali ucraini: di cosa si tratta?
Di Justine Brabant e Amélie Poinssot
Il partenariato siglato mercoledì tra Kiev e Washington apre la strada allo sfruttamento, da parte di società statunitensi, dei minerali, del gas e del petrolio ucraini. Ma le conoscenze su queste risorse sono sommarie e risalgono a un’altra epoca.
Nella lista allegata all’accordo firmato mercoledì 30 aprile tra Kiev e Washington, sono cinquantasette. Cinquantasette minerali e altre materie prime che vanno dall’alluminio allo zinco, passando per il petrolio, il gas, il GNL (gas naturale liquefatto) e le “terre rare”.
Le terre rare sono un gruppo di 17 metalli indispensabili per alcune tecnologie all’avanguardia, in particolare quelle cosiddette verdi. Paradossalmente non sono così “rare”, ma sono difficili e costose da estrarre e la loro estrazione è molto inquinante. Sono tutte incluse nell’accordo appena firmato, ad eccezione di una sola: il prometio.
Questo elenco di “risorse naturali” sfruttabili dai futuri investitori nel “sottosuolo” dell’Ucraina e nelle “sue acque territoriali” – come stabilito dal partenariato che istituisce anche un fondo di investimento – corrisponde alla realtà delle risorse dell’Ucraina? In quali regioni si troverebbero e in quali quantità?Estrapolazioni
Il carbone, pur essendo abbondante nella parte orientale del Paese, sotto occupazione russa, non figura nell’elenco, mentre le altre materie prime non sembrano essere state oggetto di prospezioni serie. Le conoscenze su queste riserve, in particolare quelle di terre rare, sono in realtà sommarie e gli esperti sono divisi sul reale valore che potrebbero rappresentare.
Per convincere gli Stati Uniti, i servizi statali ucraini hanno tuttavia dato il massimo: un documento di 40 pagine che presenta le «opportunità di investimento» nel settore, corredato di mappe e cifre, con diverse localizzazioni, principalmente nel centro e nell’est del Paese e lungo il Dniepr.“L’Ucraina possiede 22 dei 50 minerali strategici considerati critici dagli Stati Uniti” e dispone di “sei giacimenti” contenenti terre rare, si legge nella presentazione redatta dal Servizio geologico statale e dal Ministero della protezione dell’ambiente e delle risorse naturali dell’Ucraina.
Il loro sfruttamento consentirà di produrre «100 milioni di tonnellate di fertilizzanti fosfatici e materiali per prodotti elettronici ad alta tecnologia», assicura ancora la presentazione. Ma queste cifre sono estrapolazioni basate su valutazioni risalenti a… diversi decenni fa.
“L’offerta di terre rare di Zelensky si basa su attività di esplorazione che hanno avuto luogo in gran parte tra gli anni ‘60 e ’80, quando lo Stato sovietico stava attivamente mappando la regione”,sottolinea S&P Global, società specializzata in analisi finanziaria (e casa madre dell’agenzia Standard & Poor’s), che ha intervistato diverse fonti del settore e ha ottenuto il registro geologico ucraino.
«Purtroppo non esiste una valutazione recente» delle riserve di terre rare in Ucraina, assicura a S&P Roman Opimakh, ex direttore generale del servizio geologico ucraino. Dei sei giacimenti esistenti in Ucraina, solo uno è stato oggetto di esplorazioni approfondite e possiede riserve considerate sufficienti per essere sfruttate, ma in condizioni «abbastanza difficili», secondo un esperto intervistato. Le esplorazioni sono state abbandonate dopo tredici anni e dalla caduta dell’Unione Sovietica non è stato fatto alcun tentativo di sviluppare il giacimento.
In combinazione con la guerra che ha reso alcuni di essi inaccessibili e con le difficoltà inerenti allo sfruttamento dei minerali rari, il potenziale ucraino potrebbe essere molto inferiore a quanto annunciato, oltre a richiedere anni per concretizzarsi.
Forse questa è una buona notizia per gli ucraini. A capo dell’ONG Ekoaction, l’attivista ambientalista Natalia Gozak non è molto preoccupata per il momento. Secondo lei, questo accordo, che sulla carta potrebbe aprire la strada a un estrattivismo devastante a vantaggio delle potenze straniere, non si basa su alcuna ricerca precisa. «Non può esserci stato nessuno studio condotto dalle autorità ucraine dall’inizio della guerra, poiché la maggior parte delle risorse minerarie si trova nei territori occupati o vicino alla linea del fronte. Non hanno potuto basarsi su altro che su studi risalenti all’epoca sovietica, quando non si disponeva di strumenti di esplorazione così avanzati come oggi».
A questo punto, l’Ucraina vede nell’accordo firmato con gli Stati Uniti un’intenzione molto generica, siglata per la sopravvivenza del Paese, piuttosto che un trattato concreto di sfruttamento. Tanto più che è ancora in fase di elaborazione un trattato tecnico che dovrà precisare una serie di punti. L’avvio dello sfruttamento delle materie prime effettivamente presenti nel sottosuolo ucraino richiederà inoltre anni, poiché per molti minerali le infrastrutture di estrazione sono inesistenti. «L’obiettivo di questo accordo è soprattutto quello di favorire nuovi progetti di estrazione del gas», ha dichiarato a Mediapart.Un’occasione
I giacimenti di gas ucraini sono colossali. Si trovano in gran parte, come il petrolio, nel Mar Nero, ma non solo. Nel 2020, tre ricercatori ucraini hanno cercato di fare il punto della situazione nella rivista dell’Università statunitense di Harvard. «Le notevoli risorse naturali dell’Ucraina nel settore energetico rimangono sottosfruttate e sottoutilizzate oggi», hanno scritto, sottolineando che l’Ucraina possiede le riserve di gas conosciute più importanti d’Europa dopo la Norvegia. Nel 2019 ammontavano a 1,09 trilioni di metri cubi. L’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) stima che potrebbero essere quattro volte superiori.
Nel 2012, le multinazionali ExxonMobil e Royal Dutch Shell erano state incaricate dal governo ucraino di sviluppare progetti offshore nel Mar Nero. Tutto questo si è interrotto nel 2014, come ha osservato l’AIE in un rapporto quattro anni fa. Stesso destino nel 2015 per un progetto di sviluppo di gas di scisto nel Donbass, guidato da Shell, che richiedeva 200 milioni di dollari di investimenti per la fase di esplorazione.
Lo sfruttamento delle risorse ucraine da parte di investitori stranieri non è quindi imminente. «Ci vorranno milioni di dollari e nessuna azienda privata si azzarderà a fare investimenti del genere in tempo di guerra», continua Natalia Gozak. Da un punto di vista strategico, è certo che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a investire nel business degli idrocarburi in Ucraina e che cercano di diversificare le loro importazioni di terre rare per non dipendere più dalla Cina. Ma quando e come avverrà? Impossibile saperlo”.
Infatti, Donald Trump è ossessionato da molti anni dall’approvvigionamento del suo Paese di minerali critici, tra cui le terre rare. Già nel 2019 aveva inviato cinque promemoria al suo ministero della Difesa chiedendo di sviluppare la produzione interna e di garantire l’approvvigionamento di terre rare, descritte come «essenziali per la difesa nazionale». «Gli Stati Uniti importano oggi l’80% dei loro elementi di terre rare direttamente dalla Cina», constatava il presidente in un decreto legge promulgato nel settembre 2020, una dipendenza giudicata «particolarmente preoccupante».
Fin dalla sua rielezione nel 2025, Trump ha ribadito la sua intenzione di lavorare su questo tema. Un contesto che può spiegare le sue minacce di impadronirsi della Groenlandia, dove si trovano importanti riserve di terre rare… E che fa apparire l’Ucraina, con i suoi giacimenti di minerali critici presentati come pletorici, come una manna dal cielo per il miliardario.
Il governo ucraino lo ha capito bene. Dall’estate del 2024, quest’ultimo ha ripetuto che avrebbe offerto ai paesi che avessero continuato a sostenerlo finanziariamente e militarmente un accesso privilegiato alle risorse del suo sottosuolo. Fonti diplomatiche ucraine ci avevano allora confermato che l’argomento era stato elaborato appositamente in vista di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
È così che il senatore Lindsey Graham, noto per essere vicino al presidente statunitense, si è entusiasmato nel settembre 2024 per i «1’000 miliardi di dollari di minerali» su cui «siedono» gli ucraini e che «potrebbero essere utili all’economia» degli Stati Uniti. L’operazione di seduzione sembra quindi aver avuto successo. E l’Ucraina dovrebbe poter contare nuovamente sull’aiuto militare statunitense.*articolo apparso su mps-ti.ch
Leonardo De Angelis
COMUNICATO STAMPA – 11/4 SCIOPERO GLOBALE PER IL CLIMA
Di Fridays for Future Italia
Il movimento Fridays for Future Italia torna in piazza in tutta Italia l’11 Aprile 2025 per la giornata mondiale di Sciopero per il Clima.
La cornice generale presente è l’instaurazione di una economia di guerra nella quale:
Parte delle industrie dannose si convertono in industria bellica spostando le risorse economiche dalla riconversione ecologica e aumentando non solo gli impatti ambientali e sociali, ma anche rendendo irreversibile nel breve futuro la variazione di temperatura media globale. Registrata nel 2024 questa è maggiore di un grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali. L’ennesimo campanello di allarme del clima che sta cambiando per causa del sistema economico fossile;
Gli interessi economici vengono mascherati, alimentando le guerre e l’estrattivismo di risorse dai territori, di cui un esempio sono gli interessi fossili nel genocidio a Gaza. Le guerre e lo sfruttamento delle risorse hanno cause profonde, come la diseguaglianza sociale tra i territori e i paesi. Alla richiesta di una riconversione dal basso la risposta rimane invece una transizione energetica affidata a grandi aziende come ENI, che puntano, in linea con il Governo, sul gas fossile, spacciato come “combustibile di transizione”, per fare diventare l’Italia hub del gas, attraverso il famigerato Piano Mattei, nuova forma di neocolonialismo fossile, a danno dei paesi del sud globale. Non solo, si punta anche sul gas importato via nave dagli USA e paesi mediorientali e su nuovi rigassificatori, strutture costosissime che rischiano di legarci al fossile per decenni;
La gestione dei territori e delle città diventa securitaria: il dissenso viene represso affidando le città a interessi privati e portando avanti la guerra del cemento che aumenta l’impatto degli eventi climatici estremi come le alluvioni.
Per questo il movimento chiede di realizzare pienamente la riconversione ecologica:
○Attraverso la creazione di posti di lavoro nei settori socialmente e ambientalmente utili, come da tempo e dal basso provano a fare gli ex operai della ex GKN.
○Con una pianificazione dal basso che parta dalla raccolta dei reali bisogni presenti nelle città e territori iniziando con il bloccare tutti i progetti dannosi presenti o programmati.
○Fermando la repressione di chi manifesta e la cementificazione delle nostre città, vera guerra del cemento alla vita.
Fridays for Future Italia invita a manifestare in ogni forma per la giustizia climatica e sociale, per ogni decimo di grado in meno, per una pace giusta, costruita dalla democrazia, non per una guerra delle élite per il mantenimento delle disuguaglianze esistenti.
Chi vuole la pace, prepari la vita.
Lista delle piazze e iniziative
Torino – piazza Statuto ore 9:30
Valsusa – ritrovo in stazione Susa alle 8 per andare a Torino
Chieri – 12 Aprile stazione di Chieri ore 15:00
Trento – piazza Fiera ore 16:00
Milano – largo Cairoli ore 9:30
Pavia – castello Visconteo ore 9:00
Varese – piazza della Repubblica ore 17:30
Bergamo – club ricreativo Pignolo, Festival for Future dalle ore 16:00
Genova – piazza San Matteo ore 16:00
Faenza – a breve sui social
Firenze – festival Complicità Ecologiche ore 16:30
Lucca – piazzale Verdi ore 9:00
Roma – piazza Vittorio Emanuele ore 9:30
Taranto – via di Palma ore 9:00
Bari – giardino Mimmo Bucci ore 17:00 (parte di una settimana di attività)
Catania – piazza Roma ore 9:00
Caltanissetta – a breve sui social
Trapani – piazza Vittorio ore 9:30
Palermo – teatro Massimo ore 9:00
Alcamo – piazza Ciullo ore 17:00
Leonardo De Angelis
Cambiamento climatico e parità di genere in America latina
Di Miriam Viscusi
Il cambiamento climatico non colpisce allo stesso modo tutta la popolazione. Come riportano le Nazioni Unite, sono le donne e le ragazze a soffrire in misura maggiore. Le ragioni sono molteplici: le donne sono sovrarappresentate nella parte più povera della popolazione e sono coloro che fanno più affidamento sulle risorse naturali (e che sono quindi più esposte ai rischi di eventi estremi).
Inoltre, al momento di redigere e attuare politiche di adattamento al cambiamento climatico, spesso non si tiene conto delle disuguaglianze di genere. La partecipazione disuguale delle donne nei processi decisionali e politici e nel mercato del lavoro impedisce loro di contribuire alla pianificazione delle politiche di contrasto al cambiamento climatico.
Si tratta di un problema particolarmente sentito nell’America latina e nei Caraibi. Nella stessa regione, tuttavia, si registrano anche dei segnali di cambiamento. Sempre più Paesi del Centro e Sud America hanno menzionato, nei loro piani di uguaglianza di genere, la crisi climatica e otto – Repubblica Dominicana, Grenada, Panama, Uruguay, El salvador, Honduras e Messico – ne hanno fatto un pilastro della strategia.
L’impatto del cambiamento climatico
La regione dell’America latina e dei Caraibi costituisce una delle aree del mondo con più biodiversità. Allo stesso tempo, è una delle più colpite dal cambiamento climatico, come testimoniano gli eventi estremi che si sono abbattuti sui Paesi della regione negli ultimi anni. Incendi, periodi prolungati di siccità estrema e scarsità di risorse idriche, uragani e cicloni hanno contribuito ad allargare le diseguaglianze e la povertà.
Solo nel 2020 ci sono state oltre 30 tormente tropicali. Tra queste, due hanno causato oltre 1,7 milioni di sfollati. Nel 2024, le tormente tropicali sono state 11, con la più grave, l’uragano Beryl, che ha causato oltre 20.000 sfollati nella regione dei Caraibi. Sempre lo scorso anno, lo stato brasiliano di Rio Grande do Sul è stato colpito da piogge torrenziali impreviste che hanno causato la morte di 183 persone e lo sfollamento di altre 700.000.
L’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) ha previsto, entro la fine del XXI secolo, la perdita del 43% delle specie di alberi in Amazzonia, un incremento del livello del mare e una riduzione sempre maggiore dei terreni favorevoli alla coltivazione (in particolare di caffè).
La Banca Interamericana di Sviluppo (Idb), invece, riporta che negli ultimi cinquant’anni gli eventi legati al cambiamento climatico sono triplicati, con danni sugli ecosistemi e sulle economie. Il Cile è stato il Paese più colpito nel 2023. Anche l’Idb considera la regione una delle più vulnerabili al cambiamento climatico e stima che, per la risposta agli eventi naturali, l’adattamento e la mitigazione, serviranno investimenti per almeno 470 miliardi di dollari.
L’intersezionalità tra cambiamento climatico e genere
Alle donne, specialmente in comunità povere e/o indigene, è affidato il compito di gestire le risorse naturali, procurando cibo, acqua e legname per le necessità familiari e/o della comunità.
Questo compito viene reso più difficile in situazioni di disastri naturali o in condizioni avverse come estrema siccità. In questi casi, il lavoro svolto dalle donne risulta più complesso e aumenta anche il rischio di esposizione ad altre violenze. Inoltre, se pensiamo alla questione climatica come una fonte di conflitti territoriali, la vulnerabilità delle donne è maggiore: nei conflitti sono infatti donne e bambini le principali vittime.
Un’altra forma di violenza che colpisce le donne è quella contro le attiviste per l’ambiente. Secondo la Mesoamerican Initiative of Women Human Rights Defenders, le donne attiviste, e in particolare quelle indigene, sono sottoposte non solo a campagne diffamatorie e calunnie, ma anche ad assalti fisici, omicidi, stupri e altre forme di violenza. Nel 2023 l’organizzazione ha registrato oltre 6.000 attacchi. Tra il 2012 e il 2023, segnala Global Witness, sono state uccise oltre 9.000 donne.
La carenza di informazioni o l’impossibilità di accedervi, la mobilità limitata e lo scarso potere decisionale, a cui sono sottoposte le donne nella società, rendono più pericolosi gli effetti del cambiamento climatico.
A questo si aggiungono la scarsa disponibilità di risorse tecnologiche e informative, il mancato accesso al diritto di proprietà sui terreni – le donne che possiedono uno o più appezzamenti sono solo il 25% – e la minore istruzione. Inoltre, i disastri climatici possono interrompere o complicare i servizi sanitari, compresi quelli che riguardano la salute riproduttiva.
L’uguaglianza di genere nelle strategie climatiche regionali
A livello regionale, l’agenda per la parità di genere considera la questione del cambiamento climatico nel Consenso di Brasilia, adottato nel corso dell’undicesima sessione della Conferenza delle donne in America latina (2010). Il testo riconosce che «cambiamento climatico e disastri naturali possono avere un impatto negativo sullo sviluppo produttivo e sull’impiego del tempo nelle attività da parte delle donne, soprattutto in aree rurali, oltre che nel loro accesso ad un impiego».
Un ulteriore strumento introdotto a livello regionale è la Strategia di Montevideo per l’attuazione di un’agenda di genere nel quadro dello sviluppo sostenibile 2030. Si riconosce la necessità di una maggiore inclusione dei diritti di genere nell’adattamento al cambiamento climatico.
Infine, l’Accordo di Escazù entrato in vigore nel 2021 promuove i diritti dei difensori dell’ambiente in America latina ed è considerato uno dei patti più all’avanguardia in termini di intersezione tra lotta ai cambiamenti climatici e tutela dei diritti umani. L’Accordo infatti assegna priorità alla tutela delle fasce vulnerabili della società. Tra le misure consigliate per colmare il divario c’è un accesso più equo alla finanza per lo sviluppo.
L’uguaglianza di genere nelle strategie climatiche nazionali
Anche a livello nazionale, alcuni Paesi dell’America latina e dei Caraibi hanno predisposto delle strategie che identificano specifiche questioni di genere in relazione al cambiamento climatico.
Dal 1997 al 2021, l’Osservatorio per l’uguaglianza di genere in America latina ha rilevato 37 piani per l’uguaglianza di genere, 20 dei quali includono il termine «cambiamento climatico». Tra questi, sette lo inseriscono all’interno di un obiettivo strategico o di un pilastro del programma. Si tratta di Repubblica Dominicana (2018), Grenada (2014), Panama (2016), Uruguay, Honduras (2010), Messico (2014) ed El Salvador (2016).
Il Planegg III della Repubblica Dominicana (riferito al periodo 2018-2030) include tra i suoi temi «l’ambiente, la gestione dei rischi e il cambiamento climatico» e prevede di adottare un approccio di parità di genere nell’attuazione della strategia igenico-sanitaria nazionale. Inoltre, stabilisce che – in tutte le fasi di pianificazione e attuazione dei progetti legati a tutela ambientale, gestione dei territorio, adattamento e riduzione dei rischi climatici – debbano essere presi in considerazione i diritti delle donne.
Il governo di Grenada nel suo Piano di azione per le politiche di uguaglianza di genere (Gepap) ha stabilito che nelle politiche pubbliche debbano essere riconosciuti e integrati i diversi ruoli di genere. Oltre al fatto che, nello sviluppo di meccanismi di adattamento al cambiamento climatico, il governo deve assicurare una partecipazione equa.
Panama ha sviluppato due piani d’azione – uno nel 2012 e uno nel periodo 2016-2019 – pensati per aumentare la partecipazione femminile nella gestione ambientale e nelle attività come pesca, ecoturismo, settore agro forestale e tutela della biodiversità. Viene anche incorporato l’approccio di tutela dei diritti di genere nei progetti legati alla prevenzione dei disastri naturali.
Il caso del Messico
Il Messico, nel suo Programma nazionale per le pari opportunità e la non discriminazione delle donne, pubblicato per la prima volta nel 2014 e poi rinnovato, parla della necessità di armonizzare i diritti delle donne con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Inoltre, suggerisce di promuovere la partecipazione femminile nell’accesso, controllo e gestione delle risorse naturali e di rendere «protagoniste» le donne nei processi decisionali legati alla conservazione della biodiversità.
Partendo dalla versione del 2014 del piano, il governo del Messico ha avviato un processo di inclusione delle politiche ambientali in quelle di genere, e viceversa. Nel 2022, il Paese ha lanciato il proprio Piano nazionale per l’azione climatica e di genere.
«Il Messico ha promosso l’integrazione di una prospettiva trasversale dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani in tutte le questioni negoziali multilaterali per un’azione efficace per il clima», si legge nell’introduzione del documento. Il piano si basa su tre elementi progressivi: leadership femminile, costruzione delle capacità istituzionali, finanziamento e cooperazione.
L’impegno del Messico, già avviato negli anni scorsi, ha visto una svolta con l’elezione a giugno 2024 di Claudia Sheinbaum, ingegnere ambientale e prima donna presidente del Paese. Tra le sue priorità rientrano la lotta alla violenza di genere e quella al cambiamento climatico, che si intersecano nella difesa delle istanze delle donne indigene, di cui la neo presidente si è fatta promotrice. Anche la scelta di una donna come ministra dell’Ambiente – Alicia Barcena, già ministra degli Esteri nel governo precedente – rappresenta un altro esempio di impegno in questo senso.
Cambiamento climatico e focus di genere
Anche altri Paesi dell’America latina e dei Caraibi hanno sviluppato dei piani di azione climatica con un focus di genere. Inoltre, la maggior parte degli Stati della regione ha incluso la questione nei progetti di riduzione delle emissioni di carbonio (Ndc).
Nell’ambito del proprio impegno per la parità di genere e, riconoscendo che «raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile è reso più difficile se le diseguaglianze esistenti sono aggravate dalla crisi climatica», il governo di Barbados ha proposto alcune riforme del sistema finanziario internazionale. In particolare, ha chiesto agli attori internazionali di fornire liquidità immediata e ripristinare la sostenibilità del debito, mobilitare gli investimenti privati e aumentare lo sviluppo del settore pubblico nelle attività legate agli obiettivi di sviluppo sostenibile.
I prossimi passi
I piani proposti dai governi delle regione si dividono in due categorie. Da una parte, ci sono quelli che assimilano la questione di genere a quella più ampia della tutela dei diritti umani e, in tal senso, programmano strategie di lotta al cambiamento climatico che tengano conto delle fasce più vulnerabili e tutelino i loro diritti.
Dall’altro lato, invece, ci sono strategie che includono una maggiore partecipazione politica delle donne nei settori dell’economia e della transizione verso la sostenibilità, oltre che nello sviluppo e nell’attuazione dei piani di tutela ambientale e riduzione dei rischi.
La necessità di riflettere sul legame tra il ruolo delle donne e il cambiamento climatico è stata evidenziata anche durante la Cop29, che si è tenuta nel 2024 a Baku. In tale occasione infatti, è stato deciso di sviluppare un nuovo piano d’azione sulle questioni di genere, che sarà discusso durante la Cop30, che si svolgerà a fine 2025 in Brasile.
Leonardo De Angelis
In dieci anni il patrimonio dei miliardari è più che raddoppiato
Di Valentina Neri
Sono soprattutto statunitensi e imprenditori del tech i miliardari che hanno fatto fortuna negli ultimi anni, secondo il rapporto di UBS.
Nonostante pandemie, guerre e spirali inflazionistiche, sono sempre di più e stanno sempre meglio. Soprattutto gli statunitensi e coloro che operano nel campo della tecnologia o dell’industria. Negli ultimi cinque anni molti di loro hanno scelto di trasferirsi, privilegiando destinazioni come Svizzera, Emirati Arabi Uniti, Singapore e Stati Uniti. Stiamo parlando dei miliardari, protagonisti del report annuale pubblicato dalla banca elvetica UBS, giunto alla decima edizione.
Il patrimonio dei miliardari è cresciuto del 121% in dieci anniTra il 2015 e il 2024 l’indice azionario MSCI ACWI– che rappresenta 2.650 aziende a grande e media capitalizzazione di mercato – è cresciuto del 73%. Nello stesso periodo, il patrimonio complessivo dei miliardari è passato da 6.300 a 14mila miliardi di dollari: un balzo in avanti del 121%. C’è da dire che questa progressione non è stata lineare. Dal 2015 al 2020 tali ricchezze marciavano a un ritmo del +10% annuo, da allora si sono limitate a un +1%. Dieci anni fa i miliardari erano 1.757 e oggi sono 2.682, un numero rimasto stabile negli ultimi due anni. Sono la minoranza, 805, quelli che hanno ereditato le loro fortune.
I dati medi celano profonde differenze geografiche. I miliardari cinesi sembrano aver subito il contraccolpo della pandemia. Trail 2015 e il 2020, quando costruivano dal nulla città e imperi dell’e-commerce, sono passati da una ricchezza complessiva di 887,3 miliardi a 2.100 miliardi: l’aumento è del 137,6%, a un impressionante ritmo del 20% annuo. Da allora, però, il trend si è invertito e il loro patrimonio è sceso a 1.800 miliardi. Il loro numero resta stabile: erano 339 nel 2015, 496 nel 2020, 501 nel 2024. Circa uno su tre, sottolinea il rapporto, ha un patrimonio che supera di poco il miliardo: basta una piccola oscillazione azionaria per uscire dal club.
Se la passano molto bene gli statunitensi, la cui ricchezza complessiva è cresciuta del 52,7% tra il 2015 e il 2020 (da 2.500 a 3.800 miliardi) e di un altro 58,5% tra il 2020 e il 2024 (sfondando il tetto dei 6.100 miliardi). Nell’Europa occidentale, invece, la ricchezza continua a crescere ma sconta un rallentamento figlio del rialzo dei tassi d’interesse: da 1.500 a 2.100 miliardi tra il 2015 e il 2020, da 2.100 a 2.700 tra il 2020 e il 2024.
Affari d’oro con le nuove tecnologie, arranca l’immobiliarePrima l’e-commerce, i social media e i pagamenti digitali. Più di recente l’intelligenza artificiale generativa, la cybersecurity, il fintech, la stampa 3D e la robotica. Sono le nuove tecnologie a garantire affari d’oro agli imprenditori. Nell’arco di un decennio il patrimonio dei miliardari del settore tech è triplicato, passando da 788,9 a 2.400 miliardi di dollari. Impressionante – da 430,4 a 1.300 miliardi di dollari – anche l’aumento delle ricchezze dei miliardari del settore industriale. Soprattutto in settori che sono stati generosamente spronati dai governi, come l’aerospaziale, la difesa e l’auto elettrica.
Sta diventando invece più difficile accumulare patrimoni a nove cifre con l’immobiliare. O meglio, fino al 2017 l’andamento era simile a quello degli altri settori monitorati, ma da allora è rimasto indietro. Un po’ per il tracollo del real estate cinese, un po’ per l’impatto del Covid-19 sul segmento commerciale, un po’ per l’aumento dei tassi di interesse che ha fatto impennare i costi dei finanziamenti.
Perché sono sempre di più i miliardari che si trasferiscono all’esteroQuesta edizione del rapporto di UBS si intitola “Patrimoni in movimento” e dedica un intero capitolo, corredato di mappa, a quei miliardari che si trasferiscono perché «rivalutano le loro priorità». È normale che persone così ricche facciano affari da un capo all’altro del Pianeta e dunque si spostino piuttosto facilmente. A partire dal 2020, però, è successo sempre più di frequente: sono ben 176 su un totale di 2.682 quelli che si sono spostati all’estero, uno ogni quindici.
Lo studio sciorina una serie di validissime ragioni. La pandemia che ha fatto capire quanto sia importante un’assistenza sanitaria di primo livello, le famiglie più giovani che ci tengono a «un’educazione scolastica eccellente e a un ambiente sicuro», la facilità di fare affari anche in considerazione dei rischi geopolitici.
Certo, è lecito pensare che anche il sistema fiscale abbia un peso. Non si spiegherebbe, altrimenti, il motivo per cui le destinazioni preferite siano Stati Uniti, Svizzera, Singapore e Emirati Arabi Uniti. Rispettivamente al primo, secondo, terzo e ottavo posto del Financial Secrecy Index, la classifica del Tax Justice Network che misura l’opacità finanziaria, cioè la disponibilità delle singole giurisdizioni a permettere agli individui che lo desiderano di proteggere i propri patrimoni dal fisco. I miliardari che si sono trasferiti negli ultimi quattro anni hanno portato con sé un patrimonio complessivo che supera i 400 miliardi di dollari.
*articolo apparso su https://valori.it/ il 31.12.2024
Leonardo De Angelis
I costi umani del cambiamento climatico
a cura di Climate&Capitalism
Nonostante le speranze suscitate dall’Accordo di Parigi del 2015, il mondo è ora pericolosamente vicino al superamento dell’obiettivo di limitare il riscaldamento medio globale pluriennale a 1,5°C.
Nel 2023 la temperatura media annuale della superficie ha raggiunto il record di 1,45°C al di sopra del valore di riferimento preindustriale, e per tutto il 2024 sono stati registrati nuovi picchi di temperatura. Gli estremi climatici che ne derivano sono sempre più spesso causa di perdite di vite umane e di mezzi di sussistenza in tutto il mondo.
Al fine di monitorare gli impatti sulla salute e le opportunità conseguenti alla risposta globale a questo storico accordo, nello stesso anno è stato istituito il Lancet Countdown, un monitoraggio dei progressi in materia di salute e cambiamenti climatici, sostenuto da un finanziamento di Wellcome (una fondazione benefica globale). Questa collaborazione riunisce oltre trecento ricercatori multidisciplinari e professionisti della salute di tutto il mondo, che ogni anno fanno il punto sull’evoluzione del rapporto tra salute e cambiamenti climatici a livello globale, regionale e nazionale.
Il 2024 Lancet Countdown report on health and climate change, che si avvale dell’esperienza di 122 ricercatori di spicco, provenienti da agenzie delle Nazioni Unite e istituzioni accademiche di tutto il mondo, ha rivelato i risultati più preoccupanti da quando è stato istituito il monitoraggio.********************************
I dati del rapporto di quest’anno dimostrano che le persone di tutto il mondo stanno affrontando livelli di minaccia record al loro benessere, alla loro salute e alla loro sopravvivenza, a causa del rapido cambiamento climatico. Dei quindici indicatori che monitorano i rischi, le esposizioni, e gli impatti sulla salute legati al cambiamento climatico, ben dieci hanno raggiunto nuovi preoccupanti livelli nell’ultimo anno.Tra le persone di età superiore ai 65 anni, la mortalità dovuta all’aumento del calore è aumentata del 167% rispetto agli anni novanta del secolo scorso: 102 punti percentuali in più rispetto al 65% che ci si sarebbe aspettati in assenza di questo aumento della temperatura.
L’esposizione al calore incide sempre di più anche sull’attività fisica e sulla qualità del sonno, che a sua volta incide sulla salute fisica e mentale. Nel 2023, il rischio di stress da calore per le persone che svolgono attività fisica all’aperto è aumentato del 27,7% di ore in più rispetto alla media degli anni ’90. Questo ha inoltre portato, sempre nel 2023, a un aumento del 6% di ore di sonno perse, rispetto alla media del periodo 1986-2005.
In tutto il mondo le popolazioni sono sempre più a rischio di eventi meteorologici estremi e pericolosi per la loro vita. Tra il 1961-1990 e il 2014-2023, il numero di giorni di precipitazioni estreme è aumentato del 61% su tutta la superficie globale, e di conseguenza è aumentato il rischio di inondazioni, di diffusione di malattie infettive e di contaminazione delle acque. Contemporaneamente, il 48% della superficie globale è stato colpito da almeno un mese di siccità estrema nel 2023.
A sua volta, dal 1981 al 2010 – nei 124 paesi presi in considerazione nel 2022 – l’aumento degli eventi di siccità e ondate di calore ha coinvolto 151 milioni di persone in più, che hanno vissuto un’insicurezza alimentare (moderata o grave), con il valore più alto mai registrato.
Le condizioni climatiche, sempre più calde e secche, favoriscono il verificarsi di tempeste di sabbia e polvere. Questo fenomeno meteo-ambientale ha contribuito ad aumentare del 31%, tra il periodo 2003-2007 e il 2018-2022, il numero di persone esposte a concentrazioni pericilosamente elevate di particolato fine.
Nel frattempo, il cambiamento delle modalità di precipitazione e l’aumento delle temperature favoriscono la trasmissione di malattie infettive mortali come la dengue, la malaria, le malattie legate al virus del Nilo occidentale e la vibriosi, mettendo le persone a rischio di trasmissione di malattie infettive, in luoghi precedentemente non interessati.
Oltre a questi impatti, i cambiamenti climatici stanno influenzando le condizioni sociali ed economiche da cui dipendono la salute e il benessere. Le perdite economiche medie annue, dovute a eventi estremi legati al clima, sono aumentate del 23% dal 2010-2014 al 2019-2023, raggiungendo i 227 miliardi di dollari (un valore superiore al PIL di circa il 60% delle economie mondiali).
Sebbene il 60,5% delle perdite nei paesi ad altissimo indice di sviluppo umano (HDI – Human Development Index) sia stato coperto dalle assicurazioni, la stragrande maggioranza delle perdite avute nei paesi con livelli di HDI più bassi non era coperta da assicurazioni, e per questo le comunità locali hanno subìto il peso di gravi perdite sia fisiche che economiche.
Le condizioni meteorologiche estreme e gli impatti sulla salute legati ai cambiamenti climatici stanno influenzando anche la produttività del lavoro, con l’esposizione al calore che porterà a una presumibile perdita record di 512 miliardi di ore di lavoro nel 2023, per un presumibile valore di 835 miliardi di dollari di perdite di reddito. I paesi a basso e medio indice di sviluppo umano sono stati i più colpiti da queste perdite, che sono pari, rispettivamente al 7,6% e al 4,4% del loro PIL.
Gli impatti economici sulle comunità più svantaggiate e più colpite, ridurranno ulteriormente la loro capacità di affrontare e recuperare i crescenti mutamenti climatici, amplificando così le disuguaglianze globali.I molteplici rischi evidenziati da singoli indicatori potranno avere impatti simultanei e a cascata sui sistemi umani complessi e interconnessi che riguardano la salute, minacciando gravemente la salute e la sopravvivenza delle persone, ad ogni frazione di grado di aumento della temperatura media globale.
Nonostante anni di monitoraggio abbiano evidenziato le incombenti minacce alla salute dovute all’inattività nei confronti degli eventi climatici, i rischi per la salute delle persone sono stati aggravati da anni di ritardo all’adattamento, che le hanno lasciate indifese davanti alle crescenti minacce. Nel 2023, solo il 68% dei paesi ha dichiarato un’incremento (da alta a molto alta) delle capacità di gestione delle emergenze sanitarie previste dalla legge, di cui solo l’11% è costituito da paesi con un basso indice di sviluppo.
Inoltre, solo il 35% dei paesi ha dichiarato di disporre di sistemi di allerta sanitaria per malattie legate all’aumento del calore, mentre solo il 10% dei paesi li dispone per aggravamento di condizioni mentali e psicosociali. Il 50% delle città che hanno dichiarato di non avere in programma di intraprendere valutazioni dei rischi legati ai cambiamenti climatici e alla salute, riconoscono che la scarsità di risorse finanziarie sia un fondamentale ostacolo all’adattamento.
In effetti, i progetti di adattamento con potenziali benefici per la salute rappresentano solo il 27% di tutti i finanziamenti del Green Climate Fund per il 2023, nonostante ci sia stato, dal 2021, un aumento dei finanziamenti del 137%. Con una copertura sanitaria universale ancora non raggiunta nella maggior parte dei paesi, è necessario un sostegno finanziario per rafforzare i sistemi sanitari e garantire che possano proteggere le persone dai crescenti rischi per la salute legati ai cambiamenti climatici.
L’ineguale distribuzione delle risorse finanziarie e delle capacità tecniche lascia le popolazioni più vulnerabili ulteriormente prive di protezione dai crescenti rischi per la salute.
Alimentare il fuocoOltre a mettere in luce l’inadeguatezza degli sforzi di adattamento compiuti finora, il rapporto di quest’anno rivela un mondo che si sta allontanando dall’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C, con nuovi record rilevati in tutti gli indicatori che monitorano le emissioni di gas serra e le condizioni che le rendono possibili.
Lungi dal diminuire, nel 2023 le emissioni globali di CO2 legate all’energia hanno raggiunto un massimo storico. Le compagnie petrolifere e del gas – grazie agli alti prezzi dell’energia ed agli inaspettati profitti dovuti alla crisi energetica globale – stanno rafforzando la dipendenza globale dai combustibili fossili, e la maggior parte di loro sta ulteriormente ampliando i piani di produzione di combustibili fossili.
A marzo 2024, le 114 maggiori compagnie petrolifere e del gas erano sulla buona strada per aumentare le emissioni di CO2 che permetteranno di superare 1,5°C di riscaldamento nel 2040. Le probabilità sono aumentate del 189%, rispetto al 173% stimato nel 2023. Di conseguenza, le loro strategie stanno allontanando ulteriormente il mondo dal raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, minacciando ulteriormente la salute e la sopravvivenza delle persone.
Sebbene le energie rinnovabili possano fornire energia a luoghi remoti, la loro adozione è in ritardo, soprattutto nei paesi più vulnerabili. Le conseguenze di questo ritardo rispecchiano gli impatti umani di una ingiusta transizione.
A livello globale, 745 milioni di persone non hanno ancora accesso all’elettricità e subiscono i danni della “povertà energetica” sulla loro salute e sul loro benessere. La combustione di biomasse inquinanti (ad esempio, legno o letame) rappresenta ancora il 92% dell’energia domestica delle persone nei paesi a basso indice di sviluppo umano. In questi paesi solo il 2,3% dell’elettricità proviene da fonti rinnovabili pulite, rispetto all’11,6% dei paesi con un indice di sviluppo umano molto alto.
Solo nel 2021, la persistente combustione di combustibili fossili e biomasse ha causato almeno 3,33 milioni di morti per inquinamento atmosferico esterno da particolato fine (PM 2,5) a livello globale, mentre nel 2020, nei 65 paesi analizzati, l’uso domestico di combustibili solidi “sporchi” (legna da ardere, carbone, sterco, rifiuti agricoli) ha causato 2,3 milioni di morti per inquinamento atmosferico interno.
Oltre alla crescita delle emissioni di gas serra dovute al consumo di energia, tra il 2016 e il 2022 sono andati persi quasi 182 milioni di ettari di foreste, riducendo la capacità naturale del mondo di catturare la CO2 atmosferica.
Contemporaneamente, il consumo di carne rossa e prodotti lattiero-caseari, che nel 2021 ha contribuito a 11,2 milioni di morti attribuibili a diete non salutari, ha portato a un aumento del 2,9% delle emissioni agricole di gas serra dal 2016.
Anche gli stessi sistemi sanitari, pur essendo essenziali per proteggere la salute delle persone, stanno contribuendo sempre più al problema. Le emissioni di gas serra prodotte dall’assistenza sanitaria sono aumentate del 36% dal 2016, rendendo i sistemi sanitari sempre più impreparati a operare in un futuro a emissioni nette zero. Questo allontana ulteriormente l’assistenza sanitaria dal suo principio guida di “non nuocere”.
Il crescente accumulo di gas serra nell’atmosfera sta spingendo il mondo verso un futuro di rischi sanitari sempre più pericolosi e riduce le possibilità di sopravvivenza delle persone vulnerabili in tutto il mondo.
*articolo apparso su Climate&Capitalism il 10 dicembre 2024. La traduzione è stata curata da Alessandro Cocuzza per il sito https://antropocene.org/Leonardo De Angelis
Spagna. La tempesta perfetta
Di Manuel Garí
La tragedia di Valencia del 29 ottobre1 ha evidenziato la coincidenza temporale e geografica di diverse crisi concomitanti: la crisi climatica, il modello di pianificazione urbana guidato dal capitale finanziario e immobiliare, e l’aggravarsi del degrado istituzionale del “regime del 78” 2.
L’accelerazione del riscaldamento globale prodotto dai gas serra – in particolare CO2 e metano – è evidente, con le sue terribili conseguenze per l’umanità. Tuttavia, le potentissime correnti negazioniste si sono rafforzate nel discorso pubblico, rafforzate dalla vittoria di Trump e finanziate dalle società più legate al “capitale fossile”, che controllano cinicamente e spudoratamente la riunione COP29 a Baku. L’aumento delle temperature sta causando cambiamenti nei modelli di precipitazione ed evaporazione su vaste aree del pianeta. I fenomeni della desertificazione e delle piogge torrenziali sono due facce della stessa medaglia.
Il punto zero di DANA
Nel Mediterraneo (mare chiuso) si registrano temperature di 30°C in alcune zone e la media generale continua ad aumentare sia in superficie che a profondità intermedie [legata alla doppia caratteristica di temperatura e salinità]. Si instaura il fenomeno delle “ondate di caldo marino”, che provocano anossia [diminuzione della quantità di ossigeno] e la morte di coralli e pesci. Come afferma il poeta e cantautore Joan Manuel Serrat nella sua poesia “Plany al mar”, il Mediterraneo che conosciamo è ferito a morte 3 . Allo stesso tempo, l’atmosfera trattiene il 7% in più di acqua per ogni grado centigrado di aumento della temperatura. Con temperature superficiali dell’acqua superiori a 27ºC, la tempesta può trasformarsi in un uragano (con il suo nome: medicane: portmanteau per l’inglese Mediterranean hurricane), una sorta di ciclone tropicale mediterraneo. Questi due fattori (temperatura dell’acqua e ritenzione di vapore) spiegano la bomba atmosferica DANA [acronimo spagnolo per “depressione isolata ad alti livelli”, “goccia fredda” in francese, vedi grafico alla fine dell’articolo].
Il fenomeno DANA (Depressione Aislada en Niveles Altos) ha causato nelle ultime due settimane precipitazioni in diverse regioni della Spagna orientale con un’intensità, un volume e una violenza mai registrati prima. Gli scienziati ci avvertono che quello che chiamano il periodo di ritorno si è ridotto 4 . Nel caso specifico di Valencia, Félix Francés, professore di ingegneria idraulica presso l’Università Politecnica di Valencia, afferma che l’evento è così straordinario che per trovare un evento di tale intensità dovremmo risalire ad un periodo che possiamo collocare tra 1000 e 3000 anni fa. Non è quindi esagerato utilizzare l’espressione di Jeremy Rifkin quando descrive il Mar Mediterraneo come il punto zero del cambiamento climatico, anche se va notato che purtroppo esistono già molti “punti zero” in cui il cambiamento climatico e il riscaldamento globale si manifestano in forme diverse.
Il DANA è un fenomeno meteorologico ben noto nella Regione Valenciana, il mio paese d’origine, ma che non ha mai raggiunto le dimensioni apocalittiche che abbiamo vissuto 5 . Un altro poeta e cantautore della stessa generazione di Joan Manuel Serrat del 1968, Raimon, ha scritto anche lui una bellissima poesia nel 1984 intitolata “Al meu país la pluja no sap ploure” (Nel mio paese la pioggia non sa come piovere). 6 . Nel corso della storia, il Mediterraneo ha visto nascere e crollare importanti civiltà basate sulle risorse idriche a causa della siccità. Per una volta possiamo essere d’accordo con l’opinione del conservatore François-René de Chateaubriand quando afferma che “le foreste precedono le civiltà, i deserti le seguono”. E siamo di nuovo a un bivio in Spagna. Per anni DANA è stata conosciuta come la “goccia fredda” 7 e per anni si è detto che si potevano adottare misure per mitigarne gli effetti. Non è stato fatto nulla, né a livello macro né a livello micro.
La DANA del 29 ottobre evidenzia che questo tipo di fenomeni meteorologici saranno più frequenti e più intensi in un paese come la Spagna, particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici a causa della sua posizione geografica. Si tratta di un fenomeno in cui una massa di aria polare molto fredda si isola e comincia a circolare a quote molto elevate, tra i 5000 e i 9000 metri. Entra in contatto con enormi masse di vapore acqueo causato dall’evaporazione, in questo caso dal Mar Mediterraneo. Se queste masse d’aria si trovano sopra la penisola iberica, quando raggiungono il Golfo di Valencia si ricaricano a causa dell’alta temperatura del Mediterraneo. Questo forma un flusso lineare di tempeste che scaricano grandi quantità di acqua nelle montagne vicino alla costa in un breve periodo di tempo. A sua volta, più il Mediterraneo si riscalda, più evapora; e quanto più il fronte polare ondeggia a causa dell’aumento della temperatura, tanto più è probabile che vi si depositi una massa d’aria fredda. Un sistema di feedback perfetto. Paradossalmente piove meno durante l’anno, ma in ogni periodo le precipitazioni possono essere più intense e durare più a lungo.
Nel caso di Valencia e di gran parte della costa mediterranea spagnola, l’orografia favorisce il calo improvviso delle precipitazioni sulle vicine montagne costiere. I fiumi e i ruscelli, che per gran parte dell’anno hanno una portata d’acqua scarsa o si seccano improvvisamente, fungono da canale per il deflusso di grandi quantità di acqua piovana. Ma questi fenomeni atmosferici, oggi aggravati dai cambiamenti climatici, producono effetti devastanti quando si verificano in un contesto socio-politico capitalista in cui il profitto ha avuto la precedenza, sotto vari aspetti, sugli interessi della maggioranza sociale. Diciamo che le disgrazie non cadono dal cielo né sono un castigo divino.
Caos, speculazione e business urbano
Innanzitutto sono emersi gli effetti dell’accumulo di decisioni di pianificazione urbanistica suicida sui territori soggetti alle inondazioni prese negli ultimi cinquant’anni, per ragioni speculative, dal capitale immobiliare. La decisione di liberalizzare tutti i terreni disponibili per facilitare l’edilizia residenziale, industriale e turistica (altrimenti scarsamente controllata dai comuni interessati) promossa dal primo ministro spagnolo [1999-2004] José María Aznar del Partito Popolare (PP) di destra nel gli anni ’90 hanno facilitato la costruzione di alloggi nelle pianure alluvionali situate, nel caso di Valencia, tra la montagna e il mare. Il 30% dell’edilizia sociale costruita da allora in Spagna si trova in zone urbane allagabile. Ciò rappresenta una zona a rischio di 2.500 km2 e 3 milioni di persone potenzialmente esposte alle conseguenze delle inondazioni.
Va inoltre notato che i consigli locali (governati dai partiti maggiori) che hanno determinate competenze giuridiche in materia di regolamentazione urbanistica e di edilizia per edifici destinati all’edilizia abitativa, al settore terziario e all’industria nei loro comuni non hanno adottato un approccio razionale, con alcune eccezioni. Al contrario, essendo il loro sistema finanziario molto precario, finanziavano le loro attività attraverso le entrate comunali e le tasse legate alla costruzione e all’uso degli edifici. Inoltre, lungo tutta la costa mediterranea, sono stati costruiti autostrade e strade parallele alla linea di costa, nonché grandi complessi alberghieri, turistici e residenziali che formano una vera e propria barriera di diversi chilometri lineari, rendendo l’accesso all’acqua del mare proveniente da le montagne o le precipitazioni nella zona interessata, come si può vedere dall’alto o, se si preferisce, dal drone.
La liberalizzazione dei terreni senza razionali criteri urbanistici nell’organizzazione del territorio ha portato soprattutto alla grande bolla edilizia con il coinvolgimento delle banche e delle grandi imprese edili nel primo decennio del XXI secolo. Ma non solo: le sue drammatiche conseguenze sociali sono evidenti.
Nel caso dell’ultima DANA a Valencia, una pianificazione urbanistica senza leggi né criteri ha avuto effetti devastanti con la morte di più di 200 persone, con danni a case e scuole, con la distruzione di impianti industriali e raccolti agricoli. A ciò si aggiungono i danni alle infrastrutture come strade, ponti e molti altri elementi in un’area di 56.000 ettari dove vivono 230.000 persone in 75 comuni e dove ha sede il 10% delle imprese industriali e logistiche della provincia di Valencia. Le perdite economiche nell’industria e nell’agricoltura vengono quantificate, ma le prime stime ammontano già a miliardi di euro. Tuttavia, nelle ultime settimane il PP valenciano si stava preparando a votare una legge che permetterebbe di costruire alberghi a 200 metri dalla costa invece degli attuali 500 metri.
Politica, politici e negazione dell’evidenza
È chiaro che Carlos Mazón, deputato del PP e presidente della Generalitat de la Comunidad Valenciana (Governo regionale autonomo di Valencia), è colpevole di estrema negligenza che ha causato morti per non aver fissato il livello di emergenza corrispondente alla situazione e solo per ha inviato l’allarme alla popolazione – come era obbligato per legge – alla fine del pomeriggio, quando la situazione era già catastrofica. Ha responsabilità politiche, ma dovrebbe essere ritenuto responsabile delle sue azioni criminali.
Da parte loro, numerosi datori di lavoro, veri “proprietari” e leader nascosti del PP in tutta la Spagna, ma in particolare a Valencia, hanno costretto i propri dipendenti a continuare il loro lavoro in modo disumano e in violazione della legge sulla prevenzione rischi professionali che prevede esplicitamente che in caso di situazione di emergenza il lavoro debba essere interrotto. Se i lavori si fossero fermati, molte vite sarebbero state salvate. In tal modo anche questi datori di lavoro incorrono in responsabilità penali.
Il governo regionale è il prodotto di un’alleanza tra il conservatore PP, che si manifesta progressivamente come un partito di estrema destra con una patina centrista, e Vox, una formazione apertamente trumpista, senza complessi, secondo una variante altamente reazionaria e autoritaria simile a quella dell’ungherese Viktor Orban. Il suo principale leader, Santiago Abascal, è stato appena nominato presidente del partito europeo più reazionario, Patrioti per l’Europa. Anche se recentemente i due partiti, PP e Vox, hanno rotto i loro accordi a Valencia, accordi che avevano portato il governo valenciano ad allinearsi in pratica al negazionismo di Vox, assistiamo tuttavia ad un fenomeno contraddittorio: gradualmente, il partito conservatore incorpora ( PP) o rimette in agenda i temi dell’estrema destra: delinquenza migratoria, anti-catalanismo, ecc.
Vox è apertamente negatore del cambiamento climatico, ma nel PP vivono molti negazionisti spudorati o apertamente stupidi come Nuria Montes, ministra dell’Industria, del Commercio e del Turismo (equivalente alla carica di ministro) del governo regionale conservatore, capace di affermare senza arrossire che Il cambiamento climatico fa bene a Valencia perché allunga la stagione turistica estiva. Entrambi i partiti scoraggiano l’abbandono dei combustibili fossili, portano avanti progetti di sviluppo industriale e turistico senza alcun controllo sul tipo di crescita, ridimensionano il riscaldamento globale, eliminano dai bilanci regionali le posizioni destinate alle situazioni di emergenza – a beneficio della barbara “fiesta” de toros” – e formare una coalizione per difendere gli interessi delle imprese di costruzione.
Nella gestione della DANA, i due partiti PP e Vox – come in quasi tutte le questioni – formano una “Santa Alleanza” che comprende in pratica anche formazioni apertamente naziste il cui unico obiettivo è scagionare il presidente regionale Carlos Mazón – che legalmente avrebbe dovuto adottare misure per prevenire la situazione di emergenza. Quest’ultimo ha ignorato gli avvertimenti dell’Agenzia meteorologica spagnola (AEMET) e della Confederazione idrografica che hanno fornito tempestive informazioni sulla gravità della situazione perché nel frattempo stava pranzando a lungo con un giornalista. Lo scopo di questo esonero esplicito o implicito di Carlos Mazón da parte dell’estrema destra e dell’estrema destra è quello di attribuire la colpa al governo centrale spagnolo nella sua lotta per delegittimare Pedro Sánchez 8 .
Carlos Mazón non si è dimesso come richiedevano le voci popolari. Inoltre, il PP nel suo insieme sta – come in passato 9– “esternalizzando” responsabilità, anche a costo non solo della verità, del discredito della politica tra i cittadini, o della creazione di una crisi all’interno del sistema europeo Union due mesi prima che Trump entri in carica, il che mette a rischio gli accordi preesistenti. In altre parole, il PP spagnolo ha trasferito le sue dispute settarie sull’arena europea e probabilmente ha provocato non solo una crisi istituzionale con risultati imprevedibili [il PP, insieme al Partito popolare europeo, ha lanciato un’offensiva contro la commissaria europea designata, Teresa Ribera, ministro della Transizione Ecologica nel governo Sanchez, citando “la sua gestione di inondazioni catastrofiche”], ma anche una nuova tappa nello spostamento a destra del Partito Popolare Europeo e il suo riavvicinamento alle forze autoritarie.
Il PP ha utilizzato ancora una volta la vecchia tattica nazista, ripresa dal trumpismo, di affermare una menzogna come verità, creando una realtà “alternativa”. Una tattica nella quale si sono rivelati estremamente efficaci. Non è un caso che la maggior parte dei consiglieri che supervisionano il Pp in tutti i settori siano esperti di comunicazione politica, senza alcuna formazione sui temi che un governo deve affrontare. Si tratta di vincere la battaglia della comunicazione e dell’immagine.
Ciò si inserisce in un contesto più ampio di stagnazione e di crisi permanente sul piano istituzionale in cui tutte le forze scaturite dal franchismo (che non hanno mai criticato) con la connivenza di gran parte dell’apparato statale – polizia parallela, giudici, ecc. – lavorano per giudiziarizzare la vita politica per attaccare il governo centrale ma anche e soprattutto le organizzazioni sociali, le lotte sindacali, i separatisti e la sinistra rivoluzionaria, utilizzando tutta una serie di misure repressive. L’obiettivo strategico è porre fine a ogni resistenza popolare senza ricorrere a un colpo di stato, semplicemente utilizzando i meccanismi della cosiddetta democrazia liberale. L’obiettivo di questo neoliberismo autoritario è raggiungere un migliore equilibrio di potere a livello sociale e politico al fine di imporre nuovi attacchi ai diritti politici e del lavoro e poter passare a una nuova fase di deregolamentazione del lavoro con l’obiettivo di ottenere maggiori capitali guadagna margini.
Di fronte a questa situazione, il dato fondamentale della situazione risiede nella debolezza, prostrazione, smobilitazione e disorganizzazione della classe operaia e dei movimenti sociali. Il ciclo apertosi il 15-M (15 maggio 2011) con il movimento degli Indignados, che ha dato origine alla formazione di organizzazioni come Podemos, si è concluso con il fallimento totale dei leader politici populisti che hanno integrato elettoralmente questa forza e con il ritorno ad una forma imperfetta. bipartitismo delle forze del regime del 78 Oggi, la mobilitazione sociale è molto debole e i principali sindacati hanno rinunciato a svolgere un ruolo organizzativo in questa mobilitazione. L’obiettivo della direzione sindacale maggioritaria è quello di ottenere una consultazione sociale con organizzazioni datoriali sempre più aggressive e di destra. Allo stesso tempo, va notato che lo scoraggiamento si sta diffondendo anche nella base elettorale di sinistra, che vede consolidarsi nell’opinione pubblica l’influenza dell’estrema destra e di parte dell’estrema destra. E gradualmente, in modo più pericoloso, si sta diffondendo nella società un rifiuto di ciò che è collettivo, della politica, che costituisce un buon terreno fertile per le organizzazioni di estrema destra. L’idea che sia necessario un “salvatore” anche a costo delle libertà è il germe di uno Stato autoritario.
Il governo social-liberale di Pedro Sánchez ha una grande responsabilità in questa situazione. Si è dedicato all’adozione di misure compassionevoli e palliative per la classe operaia senza affrontare i problemi di fondo e non è riuscito a mantenere le sue promesse elettorali: ad esempio, l’abrogazione della “legge bavaglio repressiva (legge organica a tutela della pubblica sicurezza entrata in vigore nel luglio 2015) o la lotta contro il deficit strutturale nel settore immobiliare, ecc. Tutto questo continuando ad ampliare il divario tra salari e prestazioni sociali in un contesto di significativa crescita dell’economia spagnola.
Per quanto riguarda la DANA del 29 ottobre, la sua responsabilità non è la stessa di quella del governo PP di Valencia riguardo agli avvenimenti di quel giorno. Ma è così per quanto riguarda la questione fondamentale sopra sollevata. Non ha utilizzato i suoi anni al governo per sradicare il modello irrazionale di pianificazione urbana, né ha intrapreso azioni urgenti contro il cambiamento climatico. In particolare, mentre si presenta come il paladino della transizione ecologica, è rivelatore che non ha seriamente avviato l’abbandono dei combustibili fossili. Al contrario, ha stanziato aiuti pubblici per oltre 10,5 miliardi di euro alle imprese che traggono profitto dai combustibili fossili. Allo stesso tempo, per quanto riguarda questo DANA, si nasconde dietro un discorso sulla questione delle competenze dei governi centrali e regionali per spiegare i suoi interventi. Questo è un argomento logico per i giuristi, ma al momento della tragedia nessuno lo capisce, soprattutto le persone colpite, che non si fermano a valutare chi sia responsabile della ricerca dei dispersi, della sepoltura dei morti, del reperimento dell’acqua e della cibo, ripristinare l’elettricità o liberare le strade intasate da decine di migliaia di auto rese inutilizzabili dall’acqua.
Ancora una volta appare chiaro che il cosiddetto “Stato delle Autonomie”, a metà strada tra centralismo e federalismo, presenta grossi difetti nel suo effettivo funzionamento.
Domande sollevate dall’esperienza
I sindacati e le organizzazioni popolari con un vasto pubblico avrebbero potuto svolgere un ruolo diverso? Sì, sicuramente. Fin dal primo momento avrebbero dovuto chiedere rifugio abbandonando il posto di lavoro, come hanno fatto, ad esempio, gli insegnanti e gli studenti dell’Università di Valencia. I sindacati non si sono nemmeno avvalsi, come è stato detto, della legge sulla prevenzione dei rischi professionali. Avrebbero potuto organizzare immediatamente delle brigate per sostenere le popolazioni colpite. Avrebbero potuto andare oltre e promuovere l’autorganizzazione popolare per affrontare il disastro.
Le forze di sinistra avrebbero potuto promuovere fin dall’inizio l’esproprio dei mezzi per far fronte alle conseguenze dell’uragano: macchine, impianti, alberghi, cibo, ecc. Non lo hanno fatto perché i concetti elementari sono scomparsi dall’agenda e dall’orizzonte della maggior parte delle forze di sinistra.
I servizi di emergenza statali avrebbero potuto agire più rapidamente? Al di là dei dibattiti giuridici sulle competenze delle diverse amministrazioni, penso di sì. Anche a rischio di incorrere in nuove accuse contorte da parte dell’estrema destra e dell’estrema destra. La domanda è: le forze armate (esercito, aeronautica e marina) dovrebbero avere il monopolio delle risorse a disposizione dell’Unità militare di emergenza creata dall’ex presidente socialista [2004-2011] José Luis Rodriguez Zapatero? La risposta è inequivocabile: i servizi di emergenza statali devono e possono essere civili, come lo sono, ad esempio, i vigili del fuoco di ogni città o regione per spegnere incendi e altri disastri.
Tuttavia, la risposta popolare spontanea di solidarietà e sostegno reciproco è stata spettacolare. Anche se solo poche organizzazioni sociali e politiche hanno preso l’iniziativa di organizzare la raccolta delle risorse umanitarie e la presenza di volontari sul posto, migliaia di giovani e anziani si sono mobilitati. Migliaia di giovani e anziani, tra cui le donne un ruolo particolarmente importante, si gettarono nel fango con i loro magri mezzi per aiutare i loro vicini.
All’interno di questa moltitudine di volontari, sono apparsi squadroni fascisti e creatori di bufale reazionari con l’obiettivo di acquisire influenza e seminare le proprie idee grazie ad un’abile campagna pubblicitaria sui social network, sostenuta anche da alcuni media di destra (stampa, televisione e radio). E, nella totale impunità – come i nazisti in passato – hanno cercato di imporre la loro concezione del popolo e, come i loro predecessori, hanno avuto l’audacia di riprendere e deviare slogan e slogan che fino ad allora erano stati eredità della sinistra, come “Solo il popolo può salvare il popolo”, uno slogan che è servito da bandiera per le mobilitazioni sociali dopo la crisi del 2008. Lo stesso vale per lo slogan internazionale “Il popolo unito non sarà mai sconfitto”. In breve, hanno alimentato un confronto basato sul disagio e sulla rabbia della gente e, in questo modo, hanno affermato l’egemonia del loro discorso. Nell’attuale situazione europea e globale, non possiamo sottovalutare queste proteste.
È vero che, in questo contesto, si apre un dibattito fondamentale: in tali circostanze, e di conseguenza in una transizione eco-sociale, possiamo fare a meno dello Stato, e non dovremmo esigere che i governi agiscano? La mia risposta è no. Certamente a breve termine, nel mezzo di una crisi tipo DANA, l’intervento dei servizi pubblici (indipendentemente da chi governa) è necessario per la mobilitazione delle risorse materiali necessarie. Nell’orizzonte di una transizione eco-sociale, sarà necessario coniugare la presa del potere da parte dello Stato con l’autorganizzazione e l’autogestione sociale. E solo in questo modo potremo costruire allo stesso tempo e successivamente una democrazia socialista autogestita capace di coinvolgere l’intera società nelle decisioni necessarie alla pianificazione democratica.
E ora, nel mezzo della tragedia, cosa fare?
Di fronte alla drammatica situazione attuale di Valencia e alla sua portata, cosa può fare una piccola organizzazione rivoluzionaria?
Innanzitutto, mostrare solidarietà e stare al fianco delle vittime, del nostro popolo. A partire dalla partecipazione a compiti di salvataggio e sopravvivenza sul campo. E raccogliere fondi per far fronte ai bisogni urgenti in aiuto delle fasce più svantaggiate, perché siamo consapevoli che gli effetti di DANA hanno avuto impatti anche molto diversi a seconda delle diverse classi sociali. Nessuno può avere un pubblico politico se non parte da un principio così basilare. Questo principio è stato fatto proprio anche da diverse organizzazioni sociali e da alcune (rare) organizzazioni politiche di sinistra. C’è stata una reale mobilitazione dei giovani affinché partecipassero ai compiti sul campo, ed è stato solo stando con loro che la loro solidarietà ha potuto essere incanalata politicamente. Nei villaggi colpiti si presentarono fascisti di diverse organizzazioni per svolgere la loro opera di propaganda e di agitazione.
In secondo luogo, contrariamente alla posizione della maggioranza delle forze sindacali e politiche di sinistra, che sostengono che questo non è il momento della denuncia politica o della mobilitazione popolare, e che dobbiamo solo accompagnare il dolore, noi, Anticapitalistas, affermiamo che l’aiuto materiale (e il sostegno al dolore) non è incompatibile con la richiesta di responsabilità politica e la mobilitazione dei lavoratori fin dal primo minuto. Per questo abbiamo sostenuto l’incontro delle organizzazioni sociali che stavano preparando una grande mobilitazione di piazza. Non dobbiamo lasciare la parola solo ai rappresentanti istituzionali dei grandi media o agli ideatori di menzogne sui social network gestiti dai fascisti.
In terzo luogo, e fin dal primo momento, abbiamo sostenuto attraverso la propaganda e l’agitazione una serie di rivendicazioni immediate e transitorie in difesa dei lavoratori colpiti e nella prospettiva di un orizzonte ecosocialista. Ci siamo rivolti in particolare ai giovani per sfidare l’egemonia dei fascisti nel discorso e incanalare la rabbia popolare trasformandola in potere popolare.
La manifestazione del 9 novembre nella città di Valencia rappresenta il cartellino rosso brandito da gran parte dei cittadini di fronte all’azione del governo valenciano nella tragedia delle inondazioni causate dalla DANA. Su appello di una ventina di piccole organizzazioni sociali e senza il sostegno dei grandi sindacati dei lavoratori o dei grandi partiti di sinistra, questa mobilitazione è riuscita a riunire 200.000 valenciani. Sono seguiti attivisti solidali dal resto della Spagna. Questo è un primo passo nella giusta direzione. (Articolo ricevuto il 18 novembre 2024; traduzione editoriale A l’Encontre )
Manuel Garí è un economista, membro di Anticapitalistas e redattore della rivista Viento Sur .
- In misura minore e con risultati meno tragici, forti piogge e inondazioni di fiumi si sono verificate anche in diverse parti della Spagna che si affacciano sul Mediterraneo.
↩︎ - La Costituzione del 1978 è l’espressione del regime concluso tra franchisti e socialisti, più eurocomunisti – ora defunti –, dopo la morte del dittatore Franco [nel novembre 1975], il cui risultato fu la paralisi delle masse movimento e, in particolare, del sindacalismo di classe. Ciò ha dato vita all’attuale monarchia parlamentare, alla sopravvivenza del vecchio apparato franchista (giudici, polizia, esercito) e a quello che viene chiamato “Stato delle autonomie” il cui obiettivo era quello di porre fine alle rivendicazioni di autodeterminazione nazionale di Euskal Herria e la Catalogna creando uno stato federale carente con importanti impulsi da parte di uno stato centralizzatore.
↩︎ - Nella sua magnifica poesia scritta in catalano nel 1984, “Llanto al mar” (Le lacrime del mare), Joan Manuel Serrat dice: “Mire hecho una alcantarilla/Herido de muerte/Cuánta abundancia/Cuánta belleza/Cuánta energía/ ¡Ay, quién lo diría!/ ¡Hecha añices!/ Por ignorancia, por imprudencia/Por inconsciencia y por mala leche”. [Guarda che fango sono diventato / Ferito a morte / Tanta profusione / Tanta bellezza / Tanta energia / Oh, a chi lo farò sapere / Sono rotto in mille pezzi / Per ignoranza, per disattenzione / Per incoscienza e dallo spirito maligno].
↩︎ - Gli esperti delle inondazioni utilizzano un concetto statistico per parlare di rischi estremi: il periodo di ritorno. Se ad esempio si dice che una pioggia di 200 mm in una determinata località ha un periodo di ritorno di 20 anni, significa che quel livello di intensità si verificherà solo a quella frequenza. Immaginate una gola minacciata di inondazioni: flussi superiori al periodo di ritorno di 100 anni dovrebbero verificarsi solo una volta al secolo, in media, nel corso della storia. Tuttavia, l’inondazione del Poyo wadi (canyon naturale) – le zone più vicine a questo wadi sono state le più colpite – è stata di estrema entità. ↩︎
- Quando avevo 9 anni, nell’ottobre del 1957, ci fu una grande piena del Turia [fiume lungo 280 chilometri, che nasce dalla Muela de San Juan nella Sierra de Albarracín e sfocia nel Mediterraneo a Valencia ] e ricordo ancora l’immagine di mio padre e di mio zio che tiravano fuori i corpi dal pantano e dall’acqua come meglio potevano, senza alcun mezzo. Anni dopo, nel 1982, toccò a me farlo nella mia regione, Ribera Alta, sempre in ottobre.
↩︎ - «Nel mio Paese la pioggia non sa come piovere / Piove troppo o troppo poco / Se piove troppo poco è siccità / Se piove troppo è disastro / Che toglierà la pioggia a scuola / Chi gli dirà come piovere / Nel mio paese la pioggia non sa piovere.
↩︎ - Traduzione inglese dal tedesco
Kaltlufttropfen come “goccia d’aria fredda”. La definizione data inizialmente era quella di una depressione marcata in quota, senza riflessi in superficie, nella parte centrale della quale si trova l’aria più fredda.
↩︎ - Questa situazione è una nuova manifestazione del pantano in cui è diventata la vita politica pubblica in Spagna e della crisi istituzionale permanente. Ciò testimonia il grado di deterioramento del regime concluso tra franchisti e socialisti (più gli eurocomunisti scomparsi) dopo la morte del dittatore Franco, che ha lasciato il posto all’attuale monarchia parlamentare e al cosiddetto “Stato delle autonomie”. Ma è anche un chiaro esempio dell’assenza di forti alternative politiche di sinistra capaci di ispirare e mobilitare la maggioranza sociale.
↩︎ - È il caso dell’inquinamento del mare provocato dal petrolio Prestige [novembre 2002]; bugie e sostegno agli Stati Uniti nella guerra in Iraq; l’incidente aereo dello Yak-42 nel maggio 2003 a Türkiye, che costò la vita a dozzine di soldati; dell’attentato mortale dell’11 marzo 2004 alla stazione di Atocha di Madrid, provocato da terroristi islamici, che il PP ha tentato di attribuire all’ETA; l’incidente della metropolitana di Valencia del luglio 2006 che causò la morte di 43 persone; i numerosi casi di corruzione e in particolare il caso Gürtel; salvataggi bancari; morti nelle case di riposo di Madrid durante la pandemia di Covid e molti altri.
↩︎
Leonardo De Angelis
- In misura minore e con risultati meno tragici, forti piogge e inondazioni di fiumi si sono verificate anche in diverse parti della Spagna che si affacciano sul Mediterraneo.
Controcanto al ddl sicurezza, elogio del conflitto
Di Alessandra Algostino
Il disegno di legge 1660 approvato alla camera punta a negare il conflitto. Hanno deciso di sopprimere qualsiasi dissenso, che sia per le devastazioni ambientali e climatiche, che sia portato avanti da chi è schiacciato dalla povertà o da chi protegge la libertà di movimento. Si illudono di poter eliminare il conflitto, ciò che da sempre apre crepe nella storia scritta dall’alto. E la cui gestione resta anche la più importante antitesi alla guerra.
Il disegno di legge (n.1660) “Piantedosi” è l’ennesimo provvedimento in materia di sicurezza, espressione della fascinazione per il populismo penale e la criminalizzazione di dissenzienti, poveri e migranti, che ha attratto nel corso degli anni in modo multipartisan le forze politiche. È un canto delle sirene irresistibile per gli amanti delle soluzioni autoritarie come per i patrocinatori delle agende neoliberiste: consente di archiviare le politiche sociali, delegittimando, espellendo e punendo la marginalità sociale come la contestazione politica. Un connubio perfetto per un neoliberismo, la cui aggressività e competitività contempla la normalizzazione della guerra, per una società dominata dal TINA (There is no alternative) e da logiche identitarie dicotomiche, e una destra (in)-culturalmente intollerante a limiti e critiche.
La divergenza politica e sociale, gli eccedenti, sono dunque i nemici; tanti gli effetti collaterali utili: il conflitto sociale non esiste e non ha titolo di esistere; le radici delle diseguaglianze sociali e della devastazione ambientale sono oggetto di un transfert che le addossa a chi le subisce e a chi le contesta; si crea uno stato di permanente emergenza e distrazione. Il nuovo provvedimento è emblematico in tal senso. Due esempi: le difficoltà abitative sono “risolte” con l’inasprimento delle pene per le occupazioni, indicando i movimenti per il diritto all’abitare come i colpevoli della situazione; le condizioni disumane in carcere e nei CPR scompaiono perché rese invisibili dall’impossibilità di mettere in atto qualsiasi tentativo di chi vi è rinchiuso di farsi sentire.
È un modus operandi, che, ancor prima degli specifici profili di incostituzionalità delle singole misure, è contro il progetto della Costituzione, che si propone, muovendo dalla consapevolezza dell’esistenza delle diseguaglianze esistenti, di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’emancipazione personale e sociale, mentre la sostituzione dello stato sociale con lo stato penale occulta, trasfigura e strumentalizza gli ostacoli.
Su il manifesto il disegno di legge è stato analizzato e criticato nella sua ratio e nelle sue disposizioni, vorrei ancora insistere su un punto. Il fil noir che lo attraversa è la negazione del conflitto, represso e surrogato con la figura del nemico; non è inutile allora ricordare qual è il senso del riconoscimento del conflitto. Il conflitto consente l’espressione dei subalterni, degli oppressi, delle vite di scarto (Bauman), dei dannati della terra (Fanon), ne riconosce l’esistenza e la legittimazione a lottare per la propria dignità e autodeterminazione. Il conflitto, dunque, produce riconoscimento, inclusione ed emancipazione. È emancipazione in sé e veicola emancipazione. Il conflitto è il motore che anima la dialettica della storia. La storia è «storia di lotta di classi», «di oppressori e oppressi», che «sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese» (Marx); «sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi», «tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro» (Machiavelli). Il conflitto è un elemento dinamico, che veicola trasformazione. Chi avversa il conflitto tende a mantenere lo status quo, le relazioni di dominio e di diseguaglianza esistenti. È attraverso i conflitti che nascono i diritti, si esercitano e si preservano.
Il conflitto è anche il fondamento della democrazia; insieme ad una visione all’insegna della complessità, rende vivo il pluralismo; con la mobilitazione e l’attivismo che reca con sé sconfigge l’apatia, l’indifferenza, la passività, favorendo la partecipazione, che della democrazia è il cuore.
Preciso: il conflitto si pone in antitesi alla guerra. Si situa nell’orizzonte della complessità e della differenza, del riconoscimento reciproco, della discussione e della convivenza, mentre la guerra tende alla semplificazione identitaria, a una artificiale e coartata omogeneità, alla delegittimazione del nemico, e, in definitiva, alla sua eliminazione.
Il disegno di legge Piantedosi mira a negare il conflitto e si situa nello spazio della guerra contro il dissenso, i poveri, i migranti. L’orizzonte della trasformazione è sostituito dalla repressione; l’immaginazione e la pratica del cambiamento soffocati a colpi di reati; la democrazia diviene un mero simulacro che copre una gestione autoritaria e blinda un modello economico-sociale strutturalmente diseguale.
Versione originale su il manifesto.
Alessandra Algostino è professoressa ordinaria di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
Leonardo De Angelis
Le giornate estremamente calde sono raddoppiate per mezzo miliardo di bambini
Di Ian Angus
In 100 Paesi, oltre la metà dei bambini sperimenta il doppio delle ondate di calore rispetto a 60 anni fa.
“Il rapporto rileva che i cambiamenti climatici hanno un impatto su quasi tutti gli aspetti della salute e del benessere dei bambini, dalla gravidanza all’adolescenza. L’impatto sulla salute si aggrava quando i bambini devono affrontare rischi legati al clima che spesso si sovrappongono. Molto preoccupante è il rischio di esiti avversi alla nascita, tra cui il parto pretermine e il basso peso alla nascita, che aumenta per la maggior parte dei rischi legati al clima. I neonati e i bambini hanno un rischio maggiore di morte a causa dell’inquinamento atmosferico e del caldo estremo. Si prevede che le malattie infettive killer dei bambini, come la malaria, si intensificheranno con il cambiamento climatico. La malnutrizione, alla base della metà di tutti i decessi sotto i cinque anni a livello globale, è destinata ad aumentare a causa di eventi meteorologici estremi, oltre che per le lesioni”. (A THREAT TO PROGRESS: Confronting the effects of climate change on child health and well-being (UNICEF, 2024)
Secondo una nuova analisi dell’UNICEF, un bambino su 5 – ovvero 466 milioni – vive in aree in cui il numero di giorni estremamente caldi ogni anno è almeno il doppio rispetto a soli 60 anni fa.Utilizzando un confronto tra la media degli anni ’60 e quella del periodo 2020-2024, l’analisi lancia un forte allarme sulla velocità e la scala con cui le giornate estremamente calde – misurate come più di 35 gradi Celsius – stanno aumentando per quasi mezzo miliardo di bambini in tutto il mondo, molti dei quali non hanno le infrastrutture o i servizi per sopportarle.
“Le giornate estive più calde sembrano ormai normali”, ha dichiarato il Direttore esecutivo dell’UNICEF Catherine Russell. “Il caldo estremo sta aumentando, sconvolgendo la salute, il benessere e la routine quotidiana dei bambini”.
Lo studio esamina anche i dati a livello nazionale e rileva che in 16 Paesi i bambini vivono oggi più di un mese di giorni estremamente caldi in più rispetto a sei decenni fa. In Sud Sudan, ad esempio, i bambini vivono una media annuale di 165 giorni di caldo estremo in questo decennio, rispetto ai 110 giorni degli anni ’60, mentre in Paraguay il numero di giorni è salito a 71, rispetto ai 36 dell’epoca.
A livello globale, sempre secondo la stessa analisi, i bambini dell’Africa occidentale e centrale sono quelli più esposti a giornate estremamente calde e con gli aumenti più significativi nel tempo. 123 milioni di bambini – ovvero il 39% dei bambini della regione – vivono in media più di un terzo dell’anno – o almeno 95 giorni – con temperature superiori ai 35 gradi Celsius, raggiungendo i 212 giorni in Mali, i 202 giorni in Niger, i 198 giorni in Senegal e i 195 giorni in Sudan. In America Latina e nei Caraibi, quasi 48 milioni di bambini vivono in aree che registrano un numero doppio di giorni estremamente caldi.
Lo stress da calore all’interno dell’organismo, causato dall’esposizione al caldo estremo, rappresenta una minaccia unica per la salute e il benessere dei bambini e delle donne in gravidanza, soprattutto se non sono disponibili interventi di raffreddamento. È stato collegato a complicazioni della gravidanza, come le malattie croniche gestazionali, e a esiti avversi del parto, come la nascita di bambini morti, il basso peso alla nascita e il parto pretermine. Livelli eccessivi di stress da calore contribuiscono anche alla malnutrizione infantile, alle malattie non trasmissibili come quelle legate al caldo e rendono i bambini più vulnerabili alle malattie infettive che si diffondono con le alte temperature, come la malaria e la dengue. È dimostrato che ha anche un impatto sullo sviluppo neurologico, sulla salute mentale e sul benessere.
Il caldo estremo ha anche effetti più preoccupanti se sperimentato per lunghi periodi di tempo. Sebbene il caldo estremo sia in aumento in tutti i Paesi del mondo, l’analisi mostra che i bambini sono anche esposti a ondate di calore più gravi, più lunghe e più frequenti. In 100 Paesi, più della metà dei bambini subisce oggi il doppio delle ondate di calore rispetto a 60 anni fa. Negli Stati Uniti, ad esempio, 36 milioni di bambini sono esposti a un numero doppio di ondate di calore rispetto a 60 anni fa e 5,7 milioni sono esposti a un numero triplo.
L’impatto dei rischi legati al clima sulla salute dei bambini è moltiplicato dal fatto che i rischi legati al clima influiscono sulla sicurezza e sulla contaminazione di cibo e acqua, danneggiano le infrastrutture, interrompono i servizi per i bambini, compresa l’istruzione, e provocano sfollamenti. Inoltre, la gravità di questi impatti è determinata dalle vulnerabilità e dalle disuguaglianze che i bambini devono affrontare in base al loro status socioeconomico, al sesso, alla posizione geografica, allo stato di salute esistente e al contesto del Paese.
“I bambini non sono piccoli adulti. I loro corpi sono molto più vulnerabili al caldo estremo. I corpi giovani si riscaldano più velocemente e si raffreddano più lentamente. Il caldo estremo è particolarmente rischioso per i neonati a causa del loro battito cardiaco più veloce, quindi l’aumento delle temperature è ancora più allarmante per i bambini”, ha dichiarato Russell: “I governi devono agire per tenere sotto controllo l’aumento delle temperature e c’è un’opportunità unica per farlo proprio ora. I governi stanno elaborando i loro piani d’azione nazionali per il clima e possono farlo con l’ambizione e la consapevolezza che i bambini di oggi e le generazioni future dovranno vivere nel mondo che lasceranno”.
*Articolo apparso su https://climateandcapitalism.com/ il 14 agosto 2024.
Leonardo De Angelis
Ecosocialismo per cambiare tutto
Di German Bernasconi
Il 10 e 11 maggio 2024, in Argentina, si sono svolti i sesti Incontri Ecosocialisti Internazionali. Si sono svolte per la prima volta fuori dall’Europa, un decennio dopo la prima edizione in Svizzera, a Ginevra, nel 2014.
Il progetto per l’ultima edizione è iniziato più di un anno fa, quando ATTAC e Poder Popular sono stati contattati per verificare se fosse possibile organizzarli. Dopo mesi di dibattiti attraversati dalla dura realtà argentina, con la campagna elettorale, abbiamo dovuto sospendere l’evento inizialmente previsto per il 2023, ma abbiamo continuato il lavoro e ci siamo posti degli obiettivi politici.
I successivi incontri del gruppo di lavoro, a cui erano presenti compagni provenienti da Brasile, Cile, Paesi Baschi e Portogallo, sono stati rafforzati da una serie di incontri internazionali, ai quali si è unita a noi l’organizzazione locale Marabunta (Argentina). Dopo il periodo elettorale e la vittoria di Javier Milei, abbiamo deciso di continuare a preparare gli incontri per il mese di maggio. È stato convalidato subito dopo la vittoria del candidato libertario, in considerazione del suo programma di aggiustamento strutturale del capitalismo contro la classe operaia, perché la solidarietà internazionale è vitale per contrastare i suoi piani.
Alcuni obiettivi degli Incontri
Il movimento per il clima nel nostro Paese è ampio e diversificato. Le lotte contro l’estrattivismo, contro gli OGM e l’uso dei pesticidi ne fanno uno dei settori più dinamici, e che colpisce molto le generazioni più giovani. Tuttavia, la prospettiva ecosocialista non è ancora sufficientemente ascoltata. Consideriamo quindi gli Incontri come una piattaforma volta a riunire tutti gli attivisti che fanno parte di questa prospettiva.
L’obiettivo era quello di fornire continuità politica e attivista, consolidare i dibattiti, omogeneizzare e delineare reali prospettive programmatiche e strategiche, fino alla sfida rappresentata dalla crisi climatica, conseguenza diretta del sistema produttivista capitalista.
Infine, l’organizzazione della COP30 a Belem nel 2025 ha richiesto un nuovo dibattito sul rapporto con questo evento, così come il contro-vertice in preparazione.
Lo stato di avanzamento degli Incontri
Dopo quasi un anno di lavori, il 10 e l’11 maggio, più di 200 persone si sono riunite nell’Auditorium Centrale dell’Associazione dei Lavoratori dello Stato e nei due auditorium dell’Hotel Quagliaro, anch’esso di sua proprietà. Il 9 maggio erano previste delle attività, ma furono sospese a causa del necessario sciopero generale indetto quel giorno da tutti i lavoratori argentini, nel contesto dei massicci attacchi compiuti dal governo di Javier Milei.
Nei due giorni successivi sono stati affrontati diversi temi dell’agenda ecosocialista, a partire dalla storia dei Meeting stessi, nella consapevolezza che ogni lotta deve avere una memoria per non dover ripartire da zero. I problemi dell’eco-marxismo, l’esproprio dei territori, il debito e il commercio, in un’ottica eco-socialista, l’ascesa del militarismo e dell’estrema destra e la repressione sono stati alcuni dei temi della prima giornata, che si è chiusa con un panel che rappresentano le principali lotte ambientaliste che hanno avuto luogo in Argentina negli ultimi decenni.
Sabato 11 si è aperto con un intervento di Michael Löwy sul dibattito tra centro e periferia, seguito da un dibattito approfondito su cosa fare riguardo alla COP30. Sovranità alimentare, ecofemminismo, energia e classi sociali hanno animato il pomeriggio.
L’ultimo panel ha affrontato lo stato attuale del movimento ecosocialista e le sue prospettive future, con un intervento video di una delle figure del movimento ecosocialista, Daniel Tanuro .
L’Incontro è stato coronato dalla promessa di una triplice continuità: la partecipazione al controvertice di Belem, organizzando il Secondo Incontro Ecosocialista dell’America Latina e dei Caraibi; l’organizzazione del 7° Incontro Ecosocialista Internazionale in Belgio, attorno alla sinistra anticapitalista. E la continuazione del dibattito programmatico e strategico all’interno di una rete internazionale che terrà il suo primo incontro nelle prossime settimane.
Alcune conclusioni
Il 6° incontro è stato un successo. Con la partecipazione di più di 40 organizzazioni e di più di 15 paesi, oltre a gran parte delle province argentine, il movimento ecosocialista ha una base solida per intervenire al meglio nel movimento ambientalista. La sfida ora è dare continuità ai propri organismi permanenti di riflessione e costruzione, nonché intervenire in modo unitario nella lotta contro i negazionisti della crisi climatica di estrema destra ed essere sempre vigili per non cadere nelle false soluzioni del capitalismo verde. Oggi siamo più vicini a un’alternativa ecosocialista sistemica che consentirà alla classe operaia di godere di un ambiente sano, orari di lavoro ridotti e più tempo per il divertimento collettivo. È tempo di passare all’offensiva e articolare un programma sistemico contro la barbarie climatica e sociale del capitalismo.
Leonardo De Angelis